Gio 24 luglio 2014
Responsabilità medica dopo la riforma Balduzzi. Riflessi civilistici dell'art. 3 d. legge 158/2012
Responsabilità medica dopo la riforma Balduzzi. Riflessi civilistici dell'art. 3 d. legge 158/2012.
Consenso al trattamento sanitario, diritto all'autodeterminazione e risarcimento del danno.
ART. 3, comma 1, D.L. 158/2012
“L'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.
Nell'ottica di deflazionare il contenzioso nascente intorno alla responsabilità del medico e della struttura sanitaria, il Ministro della salute Balduzzi - da cui il nome al decreto legge 158/2012, convertito in legge 189/2012 - ha elaborato una serie di cautele per rendere maggiormente arduo intentare causa di risarcimento nei confronti dei professionisti.
È, infatti, pratica diffusa tra i pazienti, nel caso in cui le terapie non sortiscano il risultato desiderato, avanzare accuse ed intentare cause nei confronti di medici e strutture sanitarie, ignorando la natura stessa del rapporto obbligatorio che lega medico e paziente: di mezzi e non certo di risultato.
Tale intervento normativo, agendo sul piano del diritto penale, ha introdotto una scriminante per i medici che provino di aver arrecato danno al paziente con “colpa lieve”.
Sul piano processuale occorre, tuttavia, che i medici provino di essersi attenuti alle linee guida e alle “buone pratiche” accreditate dalla comunità scientifica. Si tratta delle c.d. guidelines - normalmente, opere codificate nell'ambito di convegni e seminari a carattere internazionale, pratiche riconosciute da moltissimi Paesi industrializzati - vigenti in quel determinato momento storico.
A seguito della riforma Balduzzi i medici possono, quindi, essere ritenuti penalmente responsabili solo se hanno agito con dolo o colpa grave.
Sul piano civile, al contrario, continuano ad operare i parametri vigenti, essendo sufficiente per il paziente, oltre che il nesso causale, la sussistenza di una ragionevole probabilità che il danno si sia verificato per dolo o colpa del medico (secondo il criterio del “più probabile che non”).
L’art. 3 del d.l. 158/2012, infatti, esclude la responsabilità penale del medico il quale si “attenga alle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica” e versi, in astratto, in ipotesi di colpa lieve, mantenendo “comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.”.
Evidenti sono i riflessi civilistici dell'art. 3 d.l. Balduzzi in tema di colpa medica.
Il fatto che il legislatore richiami l’art. 2043 c.c. (che prevede la clausola del neminem laedere), anziché l’art. 1218 c.c. (in tema di responsabilità contrattuale o da inadempimento) ha indotto taluni a mettere in discussione i tradizionali criteri di accertamento della responsabilità civile del medico dipendente, finora consolidati sullo schema contrattuale o, meglio, da contatto sociale (v. Cass., 22 gennaio 1999, n. 589).
Parte della giurisprudenza (v. Trib. Varese, 26 novembre 2012; Trib. Torino, 26 febbraio 2013) ritiene che il legislatore, esprimendosi nei suddetti termini, abbia inteso qualificare la responsabilità del medico come extracontrattuale, probabilmente con la finalità di scongiurare i rischi legati alla medicina difensiva (in base allo schema della responsabilità aquiliana, è il paziente a soggiacere ad un onere probatorio e ad un regime prescrizionale più gravosi).
Altra parte della giurisprudenza (v. Trib. Arezzo, 14 febbraio 2013) sostiene, invece, l’idea che il rinvio all’art. 2043 c.c. vada letto semplicemente come un’imprecisione tecnica del legislatore, di per sé inidonea a mutare quell’orientamento giurisprudenziale costante che, a garanzia di una tutela più effettiva del paziente, predica la natura contrattuale della responsabilità del medico dipendente.
La Cassazione, con la sentenza n. 4030/2013, è propensa per la tesi contrattuale e, dunque, l’orientamento tradizionale. Anzi, ritiene che l’art. 3 del d.l. Balduzzi non intacca la responsabilità da contatto del medico dipendente.
Sul punto, poi, la recente sentenza del Tribunale di Rovereto 29/12/2013 ha precisato e chiarito che “la riforma fa salva tutta la precedente elaborazione giurisprudenziale sulla natura contrattuale, ovvero da inadempimento, che occorre riconoscere alla responsabilità del medico, con conseguente piena applicazione al caso di specie dell'art. 1218 c.c.”.
Osserva, infatti, il Tribunale che il legislatore non è intervenuto sulle fonti delle obbligazioni e, in particolare, sull'art. 1173 c.c., il quale individua non solo il contratto e l'atto illecito, ma anche “ogni atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico”; che anche le obbligazioni di fonte legale (e non solo quelle di fonte contrattuale) sono disciplinate dall'art. 1218 c.c. e che, per effetto della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale (legge n. 833 del 1978) sarebbe configurabile un rapporto obbligatorio di origine legale ogni volta che un paziente si rivolga ad una struttura sanitaria appartenente al servizio per ricevere le cure del caso, indipendentemente dalla conclusione di un contratto in senso tecnico.
Tale rapporto giuridico, avente ad oggetto attività di cura in favore del paziente, non sarebbe disciplinato dall'art. 2043 c.c., ma dalle norme “Dell'inadempimento delle obbligazioni”, tra cui spicca l'art. 1218 c.c. a sua volta rubricato “Responsabilità del debitore”.
Questa ricostruzione della responsabilità civile del medico, che segue l'oramai consolidata teoria del “contatto sociale”, resterebbe dunque immutata in seguito all'entrata in vigore del decreto Balduzzi. Da tale inquadramento della natura della responsabilità civile discendono, peraltro, rilevanti conseguenze favorevoli al paziente-attore, tra le quali la prescrizione decennale e la particolare conformazione dell'onere della prova “da inadempimento”.
Ancora, a conferma della tesi sulla natura della responsabilità civile, il Tribunale di Rovereto nota come, nella seconda proposizione del citato articolo, il richiamo all'art. 2043 c.c. è preceduto dall'espressione “in tali casi”, ed è, pertanto, limitato espressamente ai casi in cui il medico non risponde penalmente di colpa lieve per essersi attenuto a linee guida accreditate.
Dunque, la portata circoscritta della disposizione in esame, precluderebbe a priori l'effetto di ricondurre in generale la materia della responsabilità medica nell'alveo dell'illecito aquiliano.
In definitiva, sembra che il decreto Balduzzi non incida sulla fattispecie della responsabilità civile del medico dipendente, mutandone le regole di accertamento, ma che operi solo sull’effetto: nei casi in cui si possa escludere la responsabilità penale del medico, resta comunque fermo l’obbligo risarcitorio, la cui entità deve essere determinata tenendo conto di linee guida e buone pratiche.
Sul piano civile, quindi, continuano ad operare i parametri vigenti, essendo sufficiente per il paziente che invoca la tutela risarcitoria, oltre che il nesso causale, la sussistenza di una ragionevole probabilità che il danno si sia verificato per dolo o colpa del medico (secondo il criterio del “più probabile che non”).
In ogni caso, in un'ottica risarcitoria, l'autodeterminazione del paziente ha un valore fondamentale. Ecco, quindi, che il consenso informato - cioè dato dal paziente dopo essere stato adeguatamente informato dal medico in merito al tipo di intervento da effettuare - assume un ruolo chiave.
Detto consenso, perché sia valido e tale da escludere la responsabilità del medico, deve essere personale, specifico, esplicito, attuale, revocabile e informato.
Ne consegue che, se c'è la violazione del consenso e dall'intervento è derivato al paziente un danno, il paziente ha diritto al risarcimento del danno. Stessa cosa vale se l'intervento è tecnicamente riuscito, ma la modalità di acquisizione del consenso è stata violata.
Quindi, la violazione del consenso può assumere rilevanza sul piano risarcitorio a condizione che sia conseguito un danno organico al paziente, da intendersi come peggioramento delle condizioni di salute.
In tema di nesso di causalità, deve farsi riferimento alla regola del “più probabile che non”, come ribadito anche dalle SS.UU. 576/2008, le quali hanno altresì sottolineato che il criterio da utilizzare per affermare la sussistenza del nesso di causalità è quello della causalità adeguata. (Corollario di questo principio è l’affermazione che in ambito civile dovrà tenersi conto della probabilità relativa, in virtù del quale il giudice dovrà impegnarsi in una analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo e non demandare tout court la verifica della sussistenza del nesso di causalità all’analisi scientifica del consulente tecnico, valutando e valorizzando la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica, e senza limitarsi ad un meccanico e semplicistico ricorso alla regola del 51%).
Spetta al medico convenuto l’onere di provare l’insussistenza del nesso causale.
Il paziente che invoca la tutela risarcitoria, invece, se l'intervento non è riuscito, deve dimostrare che alla lesione di un interesse è conseguito un danno alla salute (danno biologico) e l'entità di questo danno (al fine di determinare il risarcimento); se l'intervento è tecnicamente riuscito, deve dimostrare in che modo la violazione del consenso ha per lui cagionato un danno.
Diritto civile, commerciale e amministrativo, patrocinio legale / Annalisa Rizzatto